Brics (1 Viewer)

tontolina

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Cosa resta dei Brics






Da mercati promettenti su cui analisti e gestori a inizio anno scommettevano per impostare l’asset allocation del 2015, i Brics, acronimo di Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa, sono finiti nell’occhio del ciclone. Tra calo del prezzo delle materie prime, petrolio in primis, e crisi della Cina, gli emergenti hanno perso appeal agli occhi degli investitori. «Le principali economie emergenti, Cina, India, Brasile e Russia, stanno rallentando o sono prossime alla recessione», afferma John Greenwood, capo economista di Invesco.

Da inizio anno la borsa del Brasile ha lasciato sul terreno oltre il 6%, la Cina il 2,3%, il Sud Africa poco meno dell’1% e l’India l’8,3%. Solo la Russia si è salvata con un +21,5%. Nel mirino anche le valute. «Continuiamo ad avere una posizione relativamente prudente sulle valute dei mercati emergenti rispetto al dollaro. La normalizzazione dei tassi della Fed probabilmente sarà accompagnata da una maggiore volatilità, in quanto gli investitori rimpatrieranno il capitale dai rendimenti valutari più elevati. A nostro avviso, le valute più esposte a tali rischi sono il rand sudafricano, la lira turca e il real brasiliano», spiega Schroders.
 

tontolina

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per me è abbastanza semplice
stanno subendo un attacco da parte degli USA+UK+ISRAELE che non gradiscono le loro iniziative per sostituire il dollaro

Rublo ed Eurasian Economic Union.



L’Eurasian Economic Union è un progetto più economico che politico, il quale tenderebbe a costituire una ampia zona di libero scambio di merci e servizi tra i paesi della ex Unione Sovietica.
Al momento sono membri la Federazione Russa, Bielorussia, Kazakistan, essendo Kirghizistan e Tagikistan paesi osservatori. Punto cruciale resterebbe l’UKraina per le note vicende politiche e militari.
Questa unione doganale potrebbe anche, in un futuro, integrarsi ad ovest verso l’Unione Europea ed ad est con la Cina e l’India. Sono in corso colloqui con Vietnam, Brasile ed altri paesi non eurasiatici, dando così una connotazione globale al progetto.
Tuttavia i progetti devono essere realizzati, ....

Rublo ed Eurasian Economic Union. - SENZANUBI


http://www.investireoggi.it/forum/r...i-commerciali-senza-il-dollaro-vt82590-2.html

Shanghai Cooperation Organization (Sco)coinvolge Cina, Russia, Kazakhstan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan, vedrà a breve la partecipazione anche di India, Pakistan, Iran, Afghanistan e Mongolia.
Formerebbero così un blocco che in campo energetico controllerebbe il 20 per cento delle riserve mondiali di petrolio ed il 50 per cento di quelle di gas.

LE MOSSE SULLO SCACCHIERE ECONOMICO


L’Italia sfida gli Usa: entra nella Aiib,
risposta cinese alla Banca Mondiale


Il Financial Times rivela che anche Francia e Germania faranno parte della Asian Infrastructure Investment Bank: nei giorni scorsi si era mossa Londra, irritando gli Usa

di Redazione online

Dopo la Gran Bretagna, il cui passo ha irritato profondamente gli Stati Uniti, anche l’Italia ha accettato di entrare a far parte della Asian Infrastructure Investment Bank (Aiib).

La Aiib è l’istituto finanziario promosso dalla Cina per costituire — secondo gli Usa — un’alternativa alla Banca Mondiale di Washington e all’Asian Development Bank, sponsorizzata dall’America. È quanto rivela il Financial Times secondo il quale la Aiib, voluta con forza da Pechino e vista come fumo negli occhi dagli Usa, faranno parte anche Germania e Francia.



L’ostruzionismo di Washington

Washington, scrive il Ft, ha fatto di tutto per evitare che nazioni occidentali entrassero nella Aiib. L’istituto, fondato a Pechino lo scorso anno, punta ad attrarre investimenti in infrastrutture in settori come trasporti, energia e telecomunicazioni in tutta l’Asia. Tra i Paesi della regione, ma rimasti finora fuori dalla Aiib, si contano Giappone, Corea del Sud e Australia. A Canberra, però, il premier Tony Abbott ha fatto sapere che a breve farà una scelta finale.


La strategia di Pechino

La Aiib è stata lanciata lo scorso anno dal presidente cinese Xi Jinping, e rappresenta la punta di lancia della strategia di Pechino per accrescere la propria influenza internazionale, in particolare nella partita che la vede opposta a Washington nella definizione delle regole che guideranno il commercio mondiale nei prossimi decenni.

Quando , la scorsa settimana, Londra ha annunciato la propria adesione all’istituto, si è «giustificata» ufficialmente con le imminenti elezioni politiche nel Regno Unito. Agli osservatori è però apparso evidente l’intento britannico di posizionarsi come destinazione principale degli investimenti cinesi. Una mossa alla quale evidentemente le altre tre grandi potenze economiche europee, Italia compresa, non potevano che adeguarsi.





L’Italia sfida gli Usa: entra nella Aiib,risposta cinese alla Banca Mondiale - Corriere.it
 

tontolina

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Forse ci avevo visto giusto sul ribasso del petrolio


8 settembre 2015



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Avevo già pubblicato il 4 settembre in questo articolo alcune semplici considerazioni a favore di un ulteriore ribasso del prezzo del greggio.
Oggi vorrei aggiungere altre considerazioni che corroborano questa ipotesi.
La prima è che le banche e il governo cinesi stanno soffrendo, a causa delle vendite di borsa, un forte stress di liquidità.
La seconda è che per fare fronte a questo stress nel solo mese di agosto la Cina ha venduto titoli di Stato americani per un valore di 94 miliardi di dollari.
La terza è che anche i Paesi produttori di petrolio come l'Arabia Saudita stanno vendendo titoli in dollari per la stessa ragione.


Ora, se la Cina, come ha promesso, continuerà a sbarazzarsi dei dollari per svalutare lo Yuan del 20% sul dollaro entro il 2016, il prezzo delle materie prime dovrebbe scendere ancora di un altro 25%:

Il processo di svalutazione potrebbe ulteriormente ampliarsi se altri Paesi emergenti seguissero l’esempio della Cina.
Le conseguenze sull’economia mondiale sarebbero imprevedibili, ma per restare nel discorso petrolio, davvero non si vede come questa e altre materie prime potranno mai apprezzarsi sul mercato.
Le possibilità che il greggio aumenti di prezzo si fanno perciò sempre più lontane, almeno a giudicare dai fondamentali economici, e così il nostro Etf che avevo segnalato nel precedente articolo, ProShares UltraShort Oil & Gas (DUG), che shorta a leva 2 il prezzo del greggio, diventa sempre più un titolo interessante di questi tempi di follia finanziaria.
 

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tontolina

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La terza onda di crisi sta montando, mercati emergenti e Cat lo confermano.






Insomma, siamo nel pieno della terza ondata della crisi del 2008?
La prima era legata alla crisi dei subprime,
la seconda riguardò il debito sovrano europeo,
mentre quella in atto nei mercati emergenti, con epicentro la Cina, sarebbe la terza. E, forse, la più pericolosa. Anche solo per un dato, ovvero il fatto che anni di tassi a zero e denaro a pioggia hanno portato enormi flussi di capitale verso quelle economie ma ora quei giorni paiono finiti, formalmente anche con la spada di Damocle della Fed che se alzasse di tassi renderebbe il carico debitorio ancora più oneroso. Il tutto, a fronte di valute locali che si sono schiantate e del ciclo delle commodities che ha smesso di essere la spina dorsale di quelle economie.
Risultato?
Stando a calcoli di Goldman Sachs, 50 trilioni di dollari di debito in più dall’inizio della crisi finanziaria, la gran parte dei quali detenuta da corporations proprio dei Paesi emergenti.

Cosa potrebbe accadere, quindi, se la situazione andasse fuori controllo? Questo primo grafico
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ci mostra come il debito dei mercati emergenti sia schizzato alle stelle dal 2008, rispetto a quello dei mercati sviluppati, i quali dopo i massimi del 2009-2010 hanno cominciato a stabilizzarsi (sempre a livelli insostenibili, comunque),

mentre questo altro grafico

ci mostra come sia il livello di debito della Cina ad essere salito particolarmente in fretta, visto che come percentuale del Pil, il debito abbia accelerato modestamente dall’inizio del nuovo secolo, ponendosi nel 2007 al 121% di ratio sul Pil. Oggi siamo a più del doppio, 282%.


Questo altro grafico

ci dice invece che non solo il debito sta salendo ma che il tasso di crescita cinese sta rallentando, visto che in proiezioni abbiamo un 6% nel 2017, un livello che rappresenta un minimo da decadi e questa è una delle previsioni più ottimistiche, visto che altri economisti parlano chiaramente di area 5%.
Ma ecco una delle maggiori criticità dell’economia cinese,

ovvero il fatto che combinato con la bassa inflazione, il debito cinese non possa che peggiorare, visto che la crescita del Pil resta sempre inferiore a quella del credito bancario.

Mentre questo altro grafico

ci mostra il livello enorme degli investimenti come percentuale del Pil: con una media delle economie che vedono quella ratio al 30%, per la Cina siamo al 50% e questo altro grafico ancora

mostra l’esplosione del debito corporate nel Paese del Dragone, visto che dal terzo trimestre del 2008 è più che raddoppiata, seguito dalla Turchia.
E se l’accumulazione di debito da parte di istituzioni finanziarie si è un po’ limitato, questo grafico

ci mostra come la Cina sia ancora in testa alla classifica per nazioni seguendo il trend da metà 2008.
Ma, a mio modesto avviso, una delle situazioni potenzialmente più infiammabili per l’economia cinese è rappresentata da questo grafico,

il quale ci mostra come il livello 100% sull’asse y rappresenti il punto raggiunto il quale l’intero profitto di un’azienda viene superato dal servizio del debito e suoi interessi. Nel 2007, come vedete, erano poche le ditte in questa situazione. Quest’altro grafico,

invece, ci mostra la situazione registrata lo scorso anno: non solo lo stock totale di debito nel settore è salito di oltre il 300% in sette anni ma circa metà delle compagnie hanno pagamenti su interessi del debito doppi delle loro entrate!
Ma se la Cina rappresenta il punto massimo, questo grafico

ci mostra come le difficoltà nel servire il debito stiano salendo ovunque nei mercati emergenti, con la già citata variabile di un possibile aumento dei costo del denaro da parte della Fed che renderebbe il carico di debito ancora più oneroso da onorare. E a complicare il tutto c’è questo,

ovvero l’assenza di consumatori globali, quindi mancanza di domanda per i beni dei mercati emergenti. Per qualcuno siamo nella fase finale di un “super-ciclo del debito”, la quale sopprimerà la crescita ovunque. Mentre questo altro grafico

ci mostra come alcune economie siano maggiormente esposte attraverso il canale del commercio, tanto che come si nota una porzione particolarmente alta della voce trade della Germania sia verso i mercati emergenti.
Ed ancora due grafici. Il primo

ci mostra l’esposizione delle banche europee ai mercati emergenti come percentuale del Pil dell’eurozona, mentre questo

ci mostra che da un lato il contagio finanziario potrebbe essere esacerbato dai profondi collegamenti tra economie sviluppate ed emergenti, mentre dall’altro certifica come sia avvenuto un aumento netto dei livelli di debito globale. Con una situazione di leverage simile, un crollo dei mercati emergenti potrebbe far inchiodare la crescita a livello mondiale.
Per quanto ce ne sia di effettiva, al netto della narrativa Usa sulla ripresa, smentita ieri da questo grafico,

ovvero dai risultati delle vendite mensili di Caterpillar, le quali nel mese di settembre non hanno visto nessuna area del mondo postare una lettura più alta o pari a quella del mese precedente, tutte in calo! E per mettere la situazione in prospettiva, ecco questo altro grafico

il quale dimostra come se la grande crisi finanziaria del 2009 si sostanziò per Cat in 19 mesi consecutivi di cali, oggi in piena ripresa quei mesi consecutivi sono diventati 34! Insomma, non siamo nemmeno alle soglie di una nuova recessione globale ma di una vera e propria depressione industriale su scala mondiale.
Insomma, la terza onda sta gonfiandosi. Speriamo di riuscire a cavalcarla e di non soccombere alla sua forza, indeboliti come siamo da dati macro anemici e debito fuori controllo. Al netto di tutto, un applauso alle Banche centrali per il capolavoro ottenuto, con 13 trilioni di liquidità ecco il risultato dei magheggi della stamperia e dei tassi a zero infiniti. E meno che la Fed non voglia utilizzare la terza ondata di crisi per vedersi semplificato il lavoro in vista del QE4, scaricando su altri colpe che sono per la gran parte sue.
Sono Mauro Bottarelli, Seguimi su Twitter! Follow @maurobottarelli
 

tontolina

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La Cina influenza la politica monetaria della Federal Reserve



Scritto il 12 novembre 2015 alle 11:37 da Paolo Cardenà





Un interessante articolo del Professor Barry Eichengreen dell’Università della California, pubblicato su Project Syndacate, spiega come la Cina stia incidendo sulle decisioni di politica monetaria della Federal Reserve. In particolare l’articolo evidenzia come la Cina, vendendo mensilmente 60 miliardi di dollari di riserve, abbia di fatto iniettato sul mercato l’aumento di 25 punti base dei tassi, che equivale all’aumento che la Fed potrebbe accingersi a decidere.

Per gran parte dell’anno, gli investitori sono stati ossessionati dal momento in cui la Fed avvierà il “liftoff” – cioè, il momento in cui innalzerà i tassi di interesse di 25 punti base, o di 0,25%, come primo passo verso la normalizzazione delle condizioni monetarie. I mercati sono saliti alle stelle e sono crollati in risposta a piccoli cambiamenti nelle dichiarazioni della Fed considerate espressioni della probabilità dell’imminenza del liftoff.

Ma, nel cercare di valutare i cambiamenti nelle condizioni monetarie statunitensi, gli investitori hanno continuato a guardare nel posto sbagliato. Da metà agosto, allorché i politici cinesi hanno fatto trasalire i mercati svalutando il renminbi del 2%, l’intervento ufficiale della Cina nei mercati dei cambi è proseguito, al fine di evitare ulteriori deprezzamenti della moneta. Le autorità cinesi hanno venduto titoli esteri, prevalentemente obbligazioni del Tesoro degli Stati Uniti, e acquistato renminbi.
L’opposto di quello che la Cina ha fatto quando il renminbi era forte. Allora, la Cina acquistava titoli del Tesoro USA per impedire rialzi della moneta e quindi l’erosione della competitività degli esportatori cinesi. Di conseguenza, ha accumulato l’incredibile ammontare di 4 mila miliardi di dollari di riserve in valuta estera.
E ciò che si è riscontrato in Cina si è verificato anche in altri paesi emergenti in cui affluivano grandi quote di capitale. Le riserve in valuta estera di questi paesi, prevalentemente in titoli statunitensi, al loro massimo, lo scorso anno, hanno superato gli 8 mila miliardi di dollari.
Gli effetti di tali acquisizioni hanno destato notevole attenzione. Nel 2005, il presidenteamericano della Federal Riserve Alan Greenspan ha indicato il fenomeno come una spiegazione del suo famoso “enigma”: i tassi di interesse sui buoni del Tesoro erano inferiori rispetto a quanto le condizioni di mercato sembravano giustificare. Il suo successore, Ben Bernanke, analogamente, ha indicato gli acquisti di debito degli Stati Uniti da parte di banche centrali e governi stranieri come uno dei motivi per cui i tassi di interesse americani erano così bassi.
Oggi, questo processo ha registrato un’inversione di marcia.
Anche se al di fuori degli ambienti ufficiali cinesi nessuno conosce l’esatta entità degli interventi cinesi
sul mercato dei cambi, ipotesi fondate suggeriscono che da metà agosto essi hanno funzionato a circa 100 miliardi di dollari al mese. Gli osservatori ritengono che circa il 60% delle riserve di liquidità della Cina è costituito da Buoni del Tesoro USA. Dato che i gestori delle riserve preferiscono non squilibrare i loro portafogli accuratamente composti, probabilmente hanno venduto i titoli del Tesoro ad un tasso di circa 60 miliardi di dollari al mese.
Gli effetti sono analoghi – ma di segno opposto – a quelli del quantitative easing.
Ricordiamo che la Fed ha iniziato il suo terzo round di quantitative easing (QE3) acquistando 40 miliardi di dollari di titoli al mese, prima di aumentare il volume a 85 miliardi. Le vendite mensili di 60 miliardi di dollari da parte del governo cinese si troverebbero esattamente in mezzo. Le stime degli effetti del QE3 differiscono. Ma le evidenze indicano che il QE3 ha avuto un modesto ma significativo impatto al ribasso sui rendimenti del Tesoro e un effetto positivo sulla domanda di attività più rischiose.
Menzie Chinn dell’Università del Wisconsin ha esaminato l’impatto di acquisti e vendite esteri di titoli di Stato statunitensi a rendimenti del Tesoro decennali. Le sue stime indicano che le vendite estere ad un tasso di 60 miliardi di dollari al mese incrementano i rendimenti di dieci punti base. Dato che la Cina ha mantenuto quel tasso per 2 mesi e mezzo, ciò implica che l’equivalente di un aumento di 25 punti base dei tassi è già stato iniettato nel mercato.
Qualcuno potrebbe obiettare che il renminbi è debole perché la Cina sta attraversando un periodo di fuoriuscita di capitali da parte di investitori privati, e che parte di questo denaro privato confluisce anche nei mercati finanziari americani. Questo è tecnicamente corretto, ma è determinato da fattori relativi alle variazioni dei tassi di interesse di cui sopra. Ricordiamo che il capitale defluiva anche dagli Stati Uniti quando la Fed era impegnata nel QE, ma senza viziarne gli effetti. Si occupava di questo il recente dibattito sulle “guerre valutarie” quando i mercati emergenti lamentavano di essere inondati da afflussi finanziari dagli Stati Uniti.
Un’altra obiezione è che il QE non opera solo attraverso il cosiddetto “canale del portafoglio” – cambiando il mix di titoli sul mercato – ma anche attraverso il “canale delle aspettative”. Ciò segnala che le autorità sono seriamente impegnate a diversificare il futuro dal passato. Ma se l’intervento cinese è solo un evento isolato, e non ci sono aspettative che esso continui, allora questo secondo canale non dovrebbe essere operativo, con impatto inferiore a quello del QE.
Il problema è che nessuno è in grado di sapere quanto si prolungherà il deflusso di capitali dalla Cina o per quanto tempo le autorità cinesi continueranno ad intervenire. Da questo punto di vista, la decisione della Fed di procrastinare l’inizio del liftoff appare assolutamente ragionevole. E, dato che la Cina detiene anche euro (che adesso mette in vendita), anche la Banca Centrale Europea dovrebbe tenerne conto quando a dicembre deciderà se incrementare il proprio programma di quantitative easing.
 

tontolina

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Pace con la Cina e fine della crisi, o Terza Guerra Mondiale

14/11 • idee
L’Isis, la Siria, la Russia. E poi l’Iran, Israele, la Turchia, l’emergenza migrati, la guerra in Yemen. Prove tecniche di Terza Guerra Mondiale? Ci stanno pensando seriamente, anche per azzerare i conti: viceversa, il dominio del dollaro – non più sostenibile – dovrebbe cedere al passo al nuovo mondo dei Brics, multipolare, guidato dalla Cina. Lo sostiene l’economista Vladimiro Giacché, leggendo in chiave economico-finanziaria i devastanti rivolgimenti geopolitici in corso. Il cui punto di partenza non è in Medio Oriente, ma a Wall Street: il capitalismo finanziario non si è più ripreso dopo la grande crisi del 2007, annega nel debito e ne fa pagare il conto ai paesi emergenti, e stampa montagne di moneta ma non riesce a risollevare l’economia reale. «Dopo la grande recessione, i paesi dell’Occidente capitalistico non sembrano capaci di uscire dal modello, inaugurato negli anni Ottanta e definitamente entrato in crisi nel 2007/2008, di una crescita alimentata dal debito e dall’abnorme sviluppo della finanza». Si tratta di un modello «che ha comprato la crescita nei paesi capitalistici avanzati con un’insostenibile crescita di debito e asset finanziari», che in poco meno di trent’anni, dal 1980, sono passati dal 119% del Pil mondiale all’attuale 356%.
Proprio il doping finanziario dell’economia ha tenuto in vita i consumi negli Usa, in Europa e in Giappone, nonostante «salari reali calanti dall’inizio degli anni Settanta», e questo «grazie alla speculazione di Borsa e allo sviluppo del credito al consumo». Sempre la finanziarizzazione ha sorretto industrie decotte in settori “maturi”, come quello dell’auto, e alle stesse aziende ha offerto la possibilità di fare profitti attraverso la speculazione di Borsa. La crisi esplosa nel 2007 ha rotto il giocattolo, «ma non è riuscita a rilanciare l’accumulazione di capitale su scala globale». Stati Uniti, Giappone e Unione Europea, «e più in particolare l’Eurozona», si trovano molto al di sotto della crescita potenziale stimata prima della crisi, precisa Giacché nella sua relazione presentata ad un recente convegno romano sulla Cina post-crisi. «Nel mondo ci sono decine di milioni di disoccupati in più, soprattutto nei paesi a capitalismo avanzato, e quindi salari mancanti per oltre 1,2 trilioni di dollari, che gravano sulla domanda globale», spiega Giacché. «Il debito complessivo, al contrario, è cresciuto di 57 trilioni di dollari dal 2007», e questo «sia nei paesi a capitalismo maturo, sia nelle economie emergenti, Cina inclusa».
Nei paesi più avanzati, è calato il debito privato ma in compenso è molto cresciuto il debito pubblico, a causa della enorme “socializzazione delle perdite” conseguente alla crisi: «Gli Stati hanno salvato a proprie spese dalla bancarotta il sistema finanziario e in qualche caso anche buona parte del settore manifatturiero». Dopo la crisi, le banche centrali di Usa e Giappone (e poi anche Ue) hanno inondato il mondo di liquidità, portando a zero i tassi d’interesse e acquistando massicciamente asset finanziari sul mercato. La Federal Reserve ha comprato titoli di Stato Usa e obbligazioni private per 4 trilioni di dollari, continua Giacché. E nell’Eurozona, oggi, i riacquisti di obbligazioni da parte della Bce sono superiori alle nuove emissioni. «Questo ha sostenuto i mercati azionari e quelli dei titoli di Stato», tuttavia «non ha fatto realmente ripartire la crescita». Una constatazione che ha indotto alcuni studiosi, tra cui il Premio Nobel Paul Krugman e un peso massimo dell’establishment di Washington, l’economista Lawrence Summers, a rispolverare il concetto di “stagnazione secolare”, nato durante la crisi degli anni Trenta.
«Poche economie avanzate sono tornate ai tassi di crescita pre-crisi nonostante anni di tassi d’interesse praticamente a zero». E si temono nuove bolle finanziarie. Secondo Krugman, «periodi come gli ultimi 5 anni e oltre, in cui anche una politica di tassi d’interesse a zero non è in grado di ricreare una situazione di piena occupazione, sono destinati ad essere molto più frequenti in futuro». Quel modello è in crisi, dunque, ma i paesi non sanno rinunciarvi. Questo però si scontra con due problemi, osserva Giacché: «Il primo è la sproporzione crescente tra liquidità immessa nel mercato da parte delle banche centrali e risultati in termini di crescita», sproporzione «accompagnata dal rischio di alimentare instabilità finanziaria». Il secondo problema «consiste nel fatto che le politiche monetarie espansive (convenzionali e non) delle principali banche centrali occidentali sono di fatto pagate dai paesi emergenti, su cui le valute internazionali di riserva (e in particolare il dollaro) esercitano un diritto di signoraggio».
In altre parole, «le manovre monetarie espansive del centro capitalistico sono pagate dalla periferia». Ovvero: «Espandendo la loro base monetaria, i paesi le cui monete sono valute internazionali di riserva scaricano infatti il costo della loro politica monetaria espansiva sui paesi emergenti, che sono costretti ad adoperare quelle valute per gli scambi internazionali». Inoltre, continua Giacché, rendendo negativi i tassi d’interesse sui propri titoli di Stato, il costo dell’operazione viene scaricato su chi li ha comprati (come è noto, la Cina ha molti titoli di Stato americani in portafoglio). Secondo Pingfan Hong, dell’Onu, qualcosa come 3.700 miliardi di dollari di valore sarebbero stati trasferiti in questo modo dai paesi in via di sviluppo ai paesi più ricchi del pianeta. Tutto questo «rappresenta un forte incentivo al superamento dell’attuale ordine monetario mondiale», fondato sulla valuta statunitense.
L’obiettivo strategico dei paesi emergenti, dunque, è oggi quello chiarito in anticipo dall’agenzia cinese “Xinhua” già nel 2013: creare “una nuova valuta di riserva internazionale che rimpiazzi quella attualmente dominante, cioè il dollaro”. Obiettivo oggi perseguito costruendo progressivamente un’alternativa concreta all’uso del dollaro, dell’euro e dello yen nelle transazioni internazionali. «Questo sta già avvenendo: attraverso accordi bilaterali, un numero sempre maggiore di paesi ha stipulato con la Cina contratti in base ai quali le transazioni commerciali vengono regolate non più in dollari, ma in yuan. Ed è precisamente su questa base che fin dall’ottobre 2013 lo yuan ha superato l’euro e lo yen nel Trade Finance a livello internazionale, divenendo la seconda valuta mondiale in tale ambito».
La richiesta di ammissione dello yuan alle monete del paniere Fmi rientra nella medesima strategia, aggiunge Giacché. Sulla stessa linea, la creazione di nuove banche multilaterali di sviluppo, dalla Banca dei Brics e all’Aiib. Prima missione: costruire infrastrutture finanziarie incentrate sui Brics «e non più sulla triade Europa-Stati Uniti-Giappone», e quindi «in grado di assecondare la transizione a un ordine monetario più bilanciato». L’altro obiettivo, enunciato due anni fa da Justin Yifu Lin nel saggio “Against the Consensus”, è quello di colmare il gap infrastrutturale fisico dei paesi emergenti, eliminando colli di bottiglia dello sviluppo e sbloccando così importanti riserve di crescita mondiale. «È importante notare che di questa crescita beneficerebbero sia i paesi emergenti (com’è ovvio), sia i paesi a capitalismo maturo (in grado di fornire oggi macchinari, domani beni di consumo ai mercati con migliore potenziale del mondo)». Per Giacché, «questa strategia per il rilancio dell’accumulazione di capitale su scala globale è l’unica vera alternativa oggi in campo, per uscire dalla crisi, alla riproposizione del modello imperniato sul capitale produttivo d’interesse e quindi sull’incremento esponenziale del capitale fittizio».
Se ci fermiamo sulle più importanti infrastrutture ipotizzate, ossia la Via della Seta (terrestre e marittima), vediamo che «hanno un’implicazione geopolitica fondamentale: ossia l’avvicinamento di Europa ed Asia (e in prospettiva, forse, addirittura la creazione di un blocco eurasiatico)». Oggi, continua Giacché nella sua analisi, a questo avvicinamento si oppone non soltanto la carenza di infrastrutture di trasporto adeguate, ma anche l’“arco di instabilità” che destabilizza Medio Oriente e Asia Centrale, interrompendo in più punti entrambi i tracciati. «Questo dato di fatto ci offre una interessante lettura, non “energetica”, della situazione mediorientale». E «ci deve preoccupare, soprattutto in riferimento ad alcuni enunciati di Lawrence Summers nel contesto della sua ripresa della teoria della “secular stagnation”». Chi lavora per congelare il mondo in questa stagnazione infinita? L’Occidente, che prova ancora a «puntellare il modello di crescita precedente la crisi». Solito metodo: per contrastare il crollo dei profitti, si perpetua «l’egemonia del capitale produttivo d’interesse, pur sapendo che questo non farà che riproporre – e su scala ancora più estesa – i problemi che pochi anni fa hanno condotto a una delle più gravi crisi della storia del capitalismo».
Lo stesso Summers accenna anche a una soluzione alternativa per far ripartire la crescita, citando Alvin Hansen che enunciò «il rischio di una stagnazione secolare alla fine degli anni Trenta, in tempo per assistere al boom economico contemporaneo e successivo alla seconda guerra mondiale». Per Summers «è senz’altro possibile che si produca qualche evento esogeno di grande portata». Un “evento esogeno”? Sì, e così esplosivo da «aumentare la spesa o di ridurre il risparmio in misura tale da accrescere il tasso di interesse reale da piena occupazione nel mondo industriale». Testualmente: «Guerra a parte, non è chiaro quali eventi del genere possano verificarsi». Un “evento esogeno” chiamato Terza Guerra Mondiale?
«Se prendiamo sul serio queste affermazioni, e io credo si debba farlo – dice Giacché – quello che si sta svolgendo sotto i nostri occhi in Medio Oriente non è una recrudescenza di tribalismo islamico contro la “moderna civiltà occidentale”, e quanto avviene più complessivamente nel mondo non è l’emergere di presunti nuovi imperialismi contro i vecchi poteri capitalistici». Sul tavolo ci sono solo due opzioni: il modello di sviluppo multilaterale proposto dalla Cina, col rilancio della crescita dell’economia reale attraverso investimenti, oppure il modello di crescita solo finanziaria basato sul capitale d’interesse, e cioè «sul perpetuarsi di un signoraggio antistorico» che include «la difesa di vecchie rendite di posizione attraverso la destabilizzazione ora, e domani forse la guerra». E’ Proprio qui, conclude Giacché, che «si gioca oggi la partita – dall’esito tutt’altro che deciso – tra progresso e regressione».
L’Isis, la Siria, la Russia. E poi l’Iran, Israele, la Turchia, l’emergenza migranti, la guerra in Yemen. Prove tecniche di Terza Guerra Mondiale? Ci stanno pensando seriamente, anche per azzerare i conti: viceversa, il dominio del dollaro – non più sostenibile – dovrebbe cedere al passo al nuovo mondo dei Brics, multipolare, guidato dalla Cina. Lo sostiene l’economista Vladimiro Giacché, leggendo in chiave economico-finanziaria i devastanti rivolgimenti geopolitici in corso. Il cui punto di partenza non è in Medio Oriente, ma a Wall Street: il capitalismo finanziario non si è più ripreso dopo la grande crisi del 2007, annega nel debito e ne fa pagare il conto ai paesi emergenti, e stampa montagne di moneta ma non riesce a risollevare l’economia reale. «Dopo la grande recessione, i paesi dell’Occidente capitalistico non sembrano capaci di uscire dal modello, inaugurato negli anni Ottanta e definitamente entrato in crisi nel 2007/2008, di una crescita alimentata dal debito e dall’abnorme sviluppo della finanza». Si tratta di un modello «che ha comprato la crescita nei paesi capitalistici avanzati con un’insostenibile crescita di debito e asset finanziari», che in poco meno di trent’anni, dal 1980, sono passati dal 119% del Pil mondiale all’attuale 356%.
 

tontolina

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Le vere ragioni degli attacchi a Dilma Roussef
Per capire cosa stia accadendo in Brasile, bisogna guardare all'alta finanza e alla lobby delle banche
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28 APRILE 2016, www.theintercept.com – Non è semplice per chi non conosce bene la situazione fare ordine riguardo la crisi politica del Brasile e il continuo sforzo atto a cacciare la sua presidente, Dilma Rousseff, che ha vinto le ri-elezioni solo 18 mesi fa con 54 milioni di voti. Ma il mezzo più importante per comprendere la vera natura antidemocratica di ciò che sta avvenendo è quello di guardare alla persona che gli oligarchi brasiliani e i loro media stanno cercando di insediare come presidente: il corrotto, e profondamente impopolare, vice presidente Michel Temer. Solo in questo modo può risplendere una luce brillante su cosa realmente accade e sul perché il mondo potrebbe esserne profondamente turbato.

Il redattore capo dell’ufficio di corrispondenza del New York Times in Brasile, Simon Romero, ha intervistato Temer questa settimana e questo è il modo in cui il suo eccellente articolo si apre:

«Un recente sondaggio ha rilevato che solo il 2 per cento dei brasiliani voterebbe per lui. E’ sotto esame a causa di una testimonianza che lo collega ad un colossale scandalo per corruzione. E una corte suprema di giustizia ha decretato che il Congresso dovrebbe prendere in considerazione un procedimento di impeachment contro di lui.
Michel Temer, vice presidente del Brasile, si prepara a prendere il timone del Brasile il mese prossimo se il Senato dovesse decidere di mandare il Presidente Dilma Rousseff a processo».

Come si può razionalmente credere che sia la lotta alla corruzione a guidare lo sforzo dell’aristocrazia per la rimozione di Dilma quando in questo momento le stesse persone stanno insediando qualcuno come presidente che è accusato di corruzione in modo di gran lunga più serio di lei?
E’ ovviamente una farsa.
Ma c’è qualcosa che è ancora peggiore.
La terza persona in linea per la presidenza, proprio dietro Temer, è stato smascherato per essere spudoratamente corrotto: il fanatico evangelico e presidente della Camera, Eduardo Cunha. E’ stato lui ad aver guidato il procedimento di impeachment anche se l’anno scorso si è intascato milioni di dollari in tangenti in conti bancari svizzeri, dopo aver mentito al Congresso negando di essere titolare di conti in banche estere. Quando Romero ha chiesto a Temer quale posto occuperà Cunha una volta che avrà preso il potere, questo è il modo in cui Temer ha risposto:

«Mr Temer difende se stesso e i suoi migliori alleati che sono sotto una nube di accuse in un complotto. Esprime il suo sostegno per Eduardo Cunha, la persona che con maggiore forza conduce il procedimento di impeachment all’interno del Congresso, dicendo che non chiederebbe a Mr Cunha di dimettersi. Mr Cunha sarà il prossimo in linea per la presidenza se il signor Temer dovesse prendere il sopravvento».

Di per sè, questo dimostra la truffa di massa che si sta realizzando da queste parti. Come il collega David Miranda ha scritto questa mattina nel suo editoriale sul Guardian: “E’ ormai chiaro che la corruzione non è la causa dello sforzo teso a spodestare il presidente due volte eletto del Brasile; piuttosto, la corruzione ne è semplicemente il pretesto”. In risposta, i media brasiliani sostengono (come fa Temer) che una volta che Dilma verrà messa sotto accusa, allora gli altri politici corrotti verranno sicuramente held responsabili, ma sanno che è falso, e l’appoggio allucinante che Temer assicura a Cunha lo rende chiaro. Infatti alcune agenzie di stampa mostrano come Temer stia progettando di insediare come procuratore generale – ruolo chiave per le inchieste sulla corruzione – un politico specificamente voluto in quella posizione da Cunha. Come spiega l’editoriale di Miranda, “il vero piano dietro l’impeachment della Rousseff è di mettere fine alle indagini in corso, proteggendo così la corruzione, non di punirla”.
Ma c’è anche un altro motivo fondamentale a guidare tutto questo. Guardate chi sta andando a prendere in consegna l’economia e le finanze del Brasile una volta che la vittoria elettorale di Dilma verrà annullata. Due settimane fa Reuters ha riferito che la scelta principale di Temer per la guida della Banca Centrale è l’uomo di Goldman Sachs in Brasile, Paulo Leme. Oggi Reteurs riporta che “Murilo Portugal, il capo della più potente lobby dell’industria bancaria del Brasile” – e a lungo dirigente del FMI – “è emerso come un candidato forte per diventare ministro delle finanze se Temer dovesse prendere il potere”. Temer ha anche promesso che vorrebbe abbracciare l’austerità per la popolazione già sofferente del Brasile: Egli “si propone di ridimensionare il governo” e “tagliare la spesa pubblica”.
Durante una conference call lo scorso venerdì con JP Morgan, il celebrativo amministratore delegato del Banco Latinoamericano del Commercio Estero, Rubens Amaral, descriveva in maniera esplicita l’impeachment di Dilma come “uno dei primi passi verso la normalizzazione del Brasile”, e diceva che se il nuovo governo di Temer implementasse le “riforme strutturali” che la comunità finanziaria desidera, allora “sicuramente ci saranno opportunità”.

Nel frattempo i principali organi di informazione brasiliani come Globo, Abril, Estrado, sono praticamente unificati a sostegno dell’impeachment e hanno incitato le proteste di piazza fin dall’inizio. Perché dico questo? Reporter Senza Frontiere proprio nei giorni scorsi ha pubblicato il suo rapporto 2016 sulla libertà di stampa classificando il Brasile 103esimo nel mondo a causa delle violenze perpetrate nei confronti dei giornalisti ma anche a causa di questo fatto fondamentale: “La proprietà dei medi continua ad essere molto concentrata soprattutto nelle mani delle grandi famiglie industriali che spesso sono vicine alla classe politica”. Non è forse critallino, dunque, quanto stia avvenendo qui?
Per riassumere: le elite finanziarie e della carta stampata stanno fingendo che la corruzione sia la ragione per la rimozione del due volte presidente eletto del Paese mentre cospirano per insediare e dare potere ai personaggi più corrotti della nazione. Gli oligarchi brasiliani potrebbero riuscire a rimuovere dal potere un governo moderatamente di centro sinistra che ha vinto quattro elezioni nel nome della rappresentanza dei più poveri, e stanno letteralmente consegnando il controllo dell’economia brasiliana (la settima più grande al mondo) a Goldman Sachs e alla lobby del settore bancario.

La frode che viene perpetrata qui è tanto palese quanto devastante. Ma è lo stesso modello che abbiamo visto ripetutamente realizzarsi in tutto il mondo, in particolare in America Latina, quando una piccola elite intraprese una guerra contro i pilastri della democrazia. Il Brasile è il quinto paese più popoloso al mondo, è stato un esempio ispiratore di come una giovane democrazia può diventare matura e crescere. Ma ora, queste istituzioni democratiche e questi principi sono interamente assaliti dalle stesse fazioni finanziarie e mediatiche che hanno soppresso la democrazia e imposto una tirannia in questo paese per decenni.

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