La Cassazione è intervenuta di recente con due sentenze diverse nella sostanza e negli effetti ma entrambe riferibili al tema del trasferimento di lavoro. Il riferimento è alle pronunce Cass. Civ., Sez. Lav., 15.3.2016, n. 5056 e Cass. Civ., Sez. Lav., 31.03.2015 n. 6225. Il presupposto da cui partono i due dispositivi è lo stesso ovvero che la determinazione del luogo in cui ha sede la prestazione lavorativa rientra nella potestà organizzativa del datore e incontra un limite solo nelle previsioni in materia di trasferimento del lavoratore.

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Lavoro a domicilio: il datore può imporre la presenza in azienda

La prima delle due sentenze in esame si riferisce al lavoro a domicilio prevedendo che il lavoratore non possa sottrarsi alla decisione del datore di tornare a prestare l’attività lavorativa presso i locali aziendali anziché presso il proprio domicilio. Questo perché, spiegano i giudici, non è possibile riscontrare un’autonoma unità produttiva presso il domicilio del dipendente, ma al massimo una cd. “dipendenza aziendale” ex art. 413 c.p.c.

Trasferimento di lavoro: il rifiuto equivale alle dimissioni

Di portata più generale la seconda sentenza che sull’argomento che affronta un tema molto dibattuto: se il lavoratore rifiuta il trasferimento siamo di fronte a dimissioni per fatti concludenti? Secondo i giudici della Cassazione si. Ciò non toglie che, prima del licenziamento, è necessario procedere secondo l’iter che tutela il lavoratore, ovvero: contestazione e comunicazione di licenziamento scritte.