Erano i primi giorni del 2016, quando il brand di abbigliamento Diesel ha annunciato, non senza polemiche, di iniziare una campagna pubblicitaria sui siti porno Pornhub e Grindr, che avrebbe portato avanti fino a San Valentino e finalizzata a vendere una linea di intimo. I risultati sarebbero stati più che positivi, come ha ammesso l’ideatore della campagna, Richard Welch. Non che non ci avesse pensato nessuno prima, ma per nessun pubblicitario è facile sfatare un tabù, anche perché a rischio potrebbe esserci proprio l’immagine del marchio.

Diesel si è sempre distinto per la sua originalità e, soprattutto, non è un brand legato all’abbigliamento per la famiglia, ma ha una clientela un po’ meno tradizionale. Ciò ha reso le cose più facili per l’azienda e i risultati sono arrivati, senza che la società abbia subito alcun discredito.

Siti hard e pubblicità, un rapporto poco sfruttato

Gli esperti di marketing sono eccitati alla sola idea di sfruttare un canale per veicolare i loro contenuti, le cui potenzialità sarebbero impressionanti. Lo scorso anno, Pornhub ha fruttato 21 miliardi di visite, circa 60 milioni al giorno. E’ come se ciascun abitante di ogni angolo della Terra, neonati compresi, vi si fosse collegato almeno 3 volte al giorno. Cifre da capogiro, che spiegano non una corsa, ma almeno il tentativo di diverse società di sbarcare sui siti a contenuto sessuale e di incontro. Il Regno Unito è stato nel 2015 il secondo mercato per il porno online, mentre un’indagine di Pew Research Center ha scoperto che il 15% degli adulti americani è iscritto in un sito di incontri online e almeno il 5% delle relazioni a lungo termine sarebbe proprio frutto di un incontro inizialmente virtuale.      

Non sempre è un successo

Fare campagna pubblicitaria sui siti porno porterebbe mediamente 10 volte più visite di utilizzare come canali Google o Facebook, ma a un decimo del costo.

In sostanza, si spende molto e si raggiunge una clientela sterminata, anche se di un certo target. Il successo di Diesel è stato reso possibile, ad esempio, anche dal fatto di avere come acquirenti, in particolare, uomini, che sono anche di gran lunga i visitatori più numerosi di siti porno. Il caso di Zomato, invece, ha dimostrato l’esatto contrario, ovvero che la strategia potrebbe non pagare. Il sito di ricerca dei ristoranti e di ordinazione di cibo aveva anch’esso annunciato alla fine dello scorso anno lo sbarco sui siti hard, ma dopo qualche giorno ha pubblicizzato l’interruzione della campagna, chiedendo scusa ai clienti per avere urtato la loro sensibilità. Cos’era successo? Attivo in 20 paesi, Zomato aveva di fatto creato irritazione tra la clientela di alcuni paesi, dove per ragioni culturali la scelta era stata malvista.

Occhio a immagine brand e a target clientela

Da questi casi opposti si desume che il fare o non fare pubblicità sui siti porno dipende dal tipo di immagine di cui si gode. Un brand per la famiglia non potrebbe utilizzare una simile opzione, rischiando di rovinare, di svalutare il proprio marchio. Più facile, invece, sarebbe farlo per una società nuova, che non solo non avrebbe nulla da perdere, ma potrebbe utilizzare una campagna online sui siti porno per fare parlare di sé, creare curiosità e attirare l’attenzione del mercato. Gli analisti sembrano concordi nel ritenere che ancora per alcuni anni non dovremmo assistere a una corsa verso il segmento hard presente online per pubblicizzare il proprio prodotto. Tuttavia, l’interesse è crescente ed è molto allettante il rapporto tra i costi e il pubblico raggiunto con l’investimento. Purché sia il brand che il target siano coerenti con l’iniziativa.