La nuova settimana si è aperta con una cattiva notizia per il mercato del petrolio: le quotazioni del Wti americano sono scese fino a un minimo di 43,57 dollari al barile, il livello più basso dall’aprile del 2009, salvo risalire a 44,50 dollari successivamente, pur sempre 35 centesimi in meno della precedente seduta. Giù anche il prezzo del Brent, che scivola a 54,26 dollari, 41 centesimi in meno. C’è pessimismo da parte degli analisti sul trend a breve termine del greggio. La scorsa settimana, le quotazioni del Wti hanno ceduto il 9,6% e questa settimana potrebbe fare registrare un altro duro contraccolpo sia al petrolio americano che al Brent, a causa di svariate ragioni concomitanti.

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Le cause del tonfo

Per prima cosa, il super-dollaro: il biglietto verde è salito ai massimi degli ultimi 12 anni, tenendo conto di un paniere di valute ponderato per le transazioni commerciali. Ciò sta rendendo sempre più costoso per i clienti non americani acquistare greggio, dato che esso è quotato in dollari. Da qui, la minore domanda. Secondariamente, si sta diffondendo un cauto ottimismo da parte dell’amministrazione Obama e dell’Unione Europea sulle possibilità di raggiungere un accordo sul nucleare con l’Iran, cosa che porterebbe a una rimozione, almeno parziale, delle sanzioni ONU contro le sue esportazioni di petrolio, consentendo a Teheran di produrre di più, aumentando così la già alta offerta globale. Terzo: il rimbalzo delle quotazioni tra gennaio e febbraio è stato in grossa parte dovuto a fattori contingenti. L’inverno particolarmente freddo negli USA ha aumentato la domanda, in coincidenza con la ridotta capacità produttiva di paesi come la Libia, alle prese con una vera guerra civile interna. Adesso, però, il governo ufficiale di Tripoli ha iniziato a recuperare terreno sulle milizie dell’Isis, riattivando pian piano le estrazioni dei pozzi prima interrotte, così come sta giungendo a termine il freddo americano.

Produzione sale, domanda scende

Quarto: la produzione USA è salita ai massimi almeno dal 1972 a oltre 9,3 milioni di barili al giorno. Nell’ultima settimana, in America sono stati chiusi 56 impianti, registrandosi la 14-esima contrazione di fila, scesi ora a 866, il 46% in meno rispetto al mese di ottobre. Tuttavia, ciò non starebbe intaccando negativamente l’output, in quanto le compagnie petrolifere avrebbero semplicemente deciso di sospendere le estrazioni dagli impianti meno produttivi, dati i prezzi, concentrandosi su quelli più efficienti. Inoltre, stima Goldman Sachs, il calo della produzione negli USA potrebbe verificarsi solo nella seconda metà dell’anno.   APPROFONDISCI – Quotazioni del petrolio a $20 al barile in primavera, ecco la previsione da brivido   Quinto: le scorte di greggio in America sono salite a 469 milioni di barili, il 63% della capacità di immagazzinamento del paese, tanto che si prevede che entro giugno non sarà più possibile per i produttori accumulare le estrazioni, che volutamente non vengono vendute per tenere alto il prezzo e venderle quando le quotazioni miglioreranno. Ma quando non ci sarà più spazio nei serbatoi, il petrolio dovrà essere immesso sul mercato, mentre gli USA ridurranno le importazioni e dopo la produzione. Nel frattempo si verificherà un nuovo tonfo dei prezzi. Sesto: è il caso speculare al quinto. La Cina, primo importatore di petrolio al mondo, sta approfittando del crollo dei prezzi per accumulare scorte con il “Strategic Petroleum Reserves” (SPR). Tuttavia, Pechino avrebbe una capacità residua ridotta di accumulare nuove scorte, mentre i serbatoi avranno nuovo spazio solo verso la fine dell’anno. Ciò spingerà la Cina a rallentare la domanda, che ha subito una brusca accelerazione negli ultimi mesi, provocando così un nuovo tonfo delle quotazioni.   APPROFONDISCI – Petrolio, le quotazioni del Brent sotto i $56 per il super-dollaro e la crescita delle scorte USA   Settimo: la produzione globale resta superiore alla domanda e ha toccato a febbraio la capacità di 94 milioni di barili al giorno, facendo registrare un eccesso quotidiano sulla domanda di 1,3 milioni di barili.

Ciò significa che l’OPEC non solo non ha tagliato la sua quota, ma vari suoi membri hanno estratto greggio al massimo, come l’Arabia Saudita, primo esportatore al mondo. La stessa Russia continua a produrre senza sosta e ai massimi dai tempi dell’Unione Sovietica, al fine di attutire gli effetti della recessione in corso. Qualche variazione significativa in un senso o nell’altro nelle quotazioni del petrolio si dovrebbe avere dopodomani, quando la Federal Reserve farà conoscere l’esito della due giorni del suo board sulla politica monetaria. Si attende, in particolare, di cogliere qualche informazione in più sulla tempistica dell’avvio della stretta monetaria. Se s’intuisse che il primo rialzo dei tassi USA dopo 9 anni si avrà a giugno, il dollaro dovrebbe accelerare la sua corsa e provocare un nuovo calo dei prezzi delle materie prime, petrolio incluso.   APPROFONDISCI – Tassi USA, le nuove attese sulla Fed dopo gli ultimi dati economici