Nonostante il Dipartimento dell’Energia di Washington abbia comunicato ieri che alla fine della settimana scorsa, le scorte di petrolio negli USA risultavano cresciute di 4,766 milioni di barili a 471,44 milioni, oltre le attese degli analisti, segnando un nuovo record storico, le quotazioni del Wti e del Brent si sono impennate rispettivamente del 5,2% a 50,09 dollari al barile e del 3,6% a 57,10 dollari. Lo spread tra i due tipi di greggio si è così ridotto a 7 dollari. Eppure, il dato in sé avrebbe dovuto accelerare le vendite, visto che segnala che i serbatoi continuano a riempirsi e che presto tutto il greggio prodotto potrebbe dovere essere immesso sul mercato, aumentando l’offerta globale già eccedente la domanda di 1,5-2 milioni di barili al giorno.

La crescita delle scorte si è avuta per la dodicesima settimana consecutiva, con la conseguenza che uno dei maggiori serbatoi, quello di Cushing in Oklahoma, è ora pieno per 58,9 milioni di barili (+2,6 milioni in 7 giorni) sui 70,8 milioni disponibili.   APPROFONDISCI – Petrolio: quotazioni del Brent sotto i 55 dollari tra Iran, scorte USA e OPEC  

Colloqui Iran

Il boom delle quotazioni appare, quindi, legato ad altri fattori, che non all’aggiornamento dei dati sui fondamentali del mercato. Per prima cosa, il caso Iran. Ieri, i colloqui tra Teheran e il gruppo delle sei potenze nucleari sul programma di arricchimento dell’uranio sono proseguiti oltre la scadenza fissata al 31 marzo, ma a un certo punto si è ipotizzato che sarebbe stato raggiunto un accordo molto parziale, che non avrebbe allentato come previsto con forza le sanzioni ONU contro le esportazioni di petrolio iraniane. Se l’Iran non fosse più soggetta alle sanzioni, potrebbe aumentare la sua produzione di almeno 1 milione di barili al giorno e avrebbe a disposizione circa una trentina di milioni di barili di scorte accumulate sulle navi-cisterna nel Golfo Persico e prontamente vendibili sul mercato.

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Il super-dollaro si sgonfia?

Un altro fattore che ha determinato l’impennata dei prezzi è stato l’indebolimento del dollaro, che tra ieri e oggi ha subito un calo di mezzo punto percentuale contro l’euro, il cui cambio è salito a 1,0817. Ciò è frutto di alcuni dati deludenti sul fronte dell’economia americana, come quello sulla manifattura, cresciuta ai minimi da un anno a questa parte, o la creazione di nuovi posti di lavoro a marzo inferiore alle attese. Questi elementi farebbero propendere per un rinvio del rialzo dei tassi USA a giugno o almeno per una stretta monetaria meno veloce delle previsioni, cosa che avrebbe l’effetto di indebolire il dollaro. E quando il biglietto verde è più debole, il petrolio costa di meno per gli acquirenti non americani e ciò stimola la domanda. Stamane che gli stessi USA si sono espressi per un accordo alla portata con l’Iran, le quotazioni del Wti sul pre-mercato si sono indebolite, tornando poco sotto la soglia dei 50 dollari, suggerendo una mancanza di direzione certa e una volatilità del mercato petrolifero, dipendente sempre più dalle aspettative sulle prossime mosse della Federal Reserve, oltre che dall’analisi dei fondamentali.   APPROFONDISCI – L’oro risale sopra i 1.200 dollari l’oncia sui dati deludenti dell’economia USA