“Guardando ai mercati finanziari mi viene in mente la crisi del 2008”. Lo ha dichiarato a un forum economico a Colombo, Sri Lanka, George Soros, uno dei principali finanzieri del pianeta, il cui patrimonio è stimato in 27.300 miliardi di dollari e il cui fondo ha guadagnato mediamente il 20% dal 1969 al 2011. Alla base della principale turbolenza, spiega il magnate, c’è il problema dell’economia cinese e degli aggiustamenti in corso a Pechino per sostenerla e impedirne un eccessivo rallentamento. Sta di fatto che anche oggi le borse cinesi sono state chiuse in anticipo, dove che è scattato ancora una volta il “circuit breaker”, ovvero la sospensione automatica delle contrattazioni, a seguito del crollo del 7,2% accusato dal CSI 300, il listino principale di riferimento per le 300 maggiori società quotate presso la Borsa di Shenzen e quella di Shanghai.

Il crollo del mercato azionario cinese è stato anche stavolta conseguenze delle cattive notizie in arrivo da Pechino, dove la People’s Bank of China (PBoC) ha svalutato lo yuan ai massimi dallo scorso agosto, tagliando dello 0,51% a 6,5646 il cambio con il dollaro, nel tentativo di rianimare l’economia, che potrebbe crescere quest’anno poco sopra il 6%.

Preoccupa svalutazione yuan

Tuttavia, la svalutazione dello yuan è avvertita negativamente dagli investitori per diverse ragioni. La prima è che essa rende la Cina un mercato meno appetibile per i capitali. La seconda è che si teme che questa decisione possa spingere le altre banche centrali a reagire, scatenando una guerra valutaria. A tale proposito, si consideri che gli USA e l’Europa stanno affrontando da mesi la minaccia della deflazione, che si materializzerebbe in maniera più preponderante con le mosse della PBoC. Terzo: se lo yuan s’indebolisce, per le famiglie e le imprese cinesi sarà più costoso l’acquisto delle materie prime, petrolio in primis. Ergo, la loro domanda potrebbe diminuire proprio presso l’economia, nella quale le commodities ripongono maggiormente le speranze per una risalita dei prezzi.

       

Quotazioni petrolio vicine ai 30 dollari

Dall’inizio dell’anno a ieri, il mercato azionario globale ha già perso ben 2.500 miliardi di dollari di capitalizzazione. Forse in pochi si aspettavano una partenza così brusca del nuovo anno. Ma non è finita. Poche ore fa, la Banca Mondiale ha aggiornato le stime sull’economia globale, che quest’anno dovrebbe crescere del 2,9% e non del 3,3% previsto nel giugno scorso. Anche questo dato è piuttosto negativo per le borse e, in particolare, per le materie prime, tanto che le quotazioni del petrolio sono scese sotto i 33 dollari al barile. In particolare, al momento il Wti americano arretra del 3,56% a 32,76 dollari e il Brent del 3,94% a 32,88 dollari, i livelli più bassi da oltre 11 anni a questa parte. A colpire il greggio è anche la diffusione dei dati sulle scorte accumulate dal super-serbatoio di Cushing, in Oklahoma, dalla capacità contenitiva di 73 milioni di barili. Per la nona settimana consecutiva, il sito registra una crescita a 63,9 milioni di barili, la serie positiva più lunga da 9 mesi. Nonostante le scorte siano stimate in calo di 5,1 milioni di barili negli USA, c’è l’impressione che gli eccessi di offerta tendano a rimanere stabili dentro e fuori l’America e le tensioni tra Iran e Arabia Saudita rafforzano questa convinzione. A questo punto, gli investitori iniziano realmente a chiedersi se stia tornando una nuova crisi finanziaria globale, in stile 2008. Le esternazioni di Soros sono solo l’apice delle preoccupazioni imperanti sui mercati. Il rallentamento dell’economia globale interviene, infatti, in uno scenario già debole, visto che solo l’economia americana cresce tra le grandi a ritmi sostenuti, mentre l’Eurozona rimane poco più che stagnante e la Cina potrebbe trascinare in calo ulteriormente i prezzi delle materie prime, con effetti devastanti sulle economie produttrici, che sono per lo più quelle emergenti.

Secondo la Banca Mondiale, queste dovrebbero crescere quest’anno del 4,8%, meno delle stime precedenti.        

Crisi economie emergenti sarebbe negativa anche per USA ed Europa

In assenza di un consolidamento dei consumi interni, anche USA ed Eurozona potrebbero subire le conseguenze di un deterioramento sui mercati emergenti, attraverso il calo delle esportazioni. E’ in questo scenario che la Federal Reserve ha iniziato ad alzare i tassi USA, una decisione considerati da molti tardiva, ma che adesso il governatore Janet Yellen potrebbe trovarsi costretta a rimangiarsi. Il punto di domanda vero è se ci sarebbero armi a sufficienza in dotazione alle banche centrali per contrastare un eventuale nuovo crollo finanziario. La risposta è no. Rispetto al 2008, i tassi risultano già azzerati o persino negativi e gli istituti hanno iniettato migliaia di miliardi di liquidità sui mercati. Fare più di così sembra impossibile. E se nemmeno politiche monetarie ultra-accomodanti sono bastate a rinvigorire la crescita economica e a riportare l’inflazione ai target, figuriamoci quali effetti potrebbe avere l’arrivo di un nuovo 2008 in un panorama già depresso.