Non è un buon momento per le banche europee, in particolare, per quelle italiane, che quest’anno hanno perso in borsa il 48%. Il nervosismo sul comparto ha a che fare a Piazza Affari con cause specifiche e con il rischio Brexit, a pochi giorni dal referendum del 23 giugno. Al momento, i titoli bancari del nostro paese quotano mediamente al livello più basso da quasi 4 anni.

E Unicredit sta toccando il suo nuovo minimo storico a 2,172 euro, “bruciando” dall’inizio dell’anno il 58% del suo valore e scendendo a una capitalizzazione di appena 13,4 miliardi.

Valeva più di 38 miliardi un anno fa. Il crollo dell’unica “banca sistemica” italiana inserita nella lista Sifi è dovuto alla sua bassa patrimonializzazione.

Ufficialmente, Piazza Gae Aulenti soddisfa i requisiti minimi di capitale, esibendo al 31 marzo scorso un Common equity tier 1 ratio del 10,85%, superiore al 10% minimo imposto dalle regole europee. Ma il buffer è troppo esiguo per assicurare al mercato sui rischi di un deterioramento patrimoniale, tanto più che l’istituto detiene ancora sofferenze nette per più di 20 miliardi e di recente si era cacciata in un bel guaio, quando aveva garantito l’aumento di capitale da 1,5 miliardi della Popolare di Vicenza, salvo accorgersi in ritardo che l’operazione sarebbe stata un flop e che si sarebbe trasformata in un accollo di azioni senza valore.

Titolo Unicredit sprofondato

Unicredit si è salvata in calcio d’angolo con la nascita orchestrata dal governo del fondo Atlante, che di fatto ha spalmato sul sistema bancario e assicurativo nazionale il costo dell’aumento di Vicenza e di quello prossimo di Veneto Banca.

In ogni caso, quella che fino allo scorso anno era considerata la più grande banca italiana e che possiede un quarto dei depositi dei risparmiatori del Belpaese, non potrà sfuggire a una ricapitalizzazione, stimata in non meno di 5 miliardi, ma che forse arriverà fino a 9 miliardi.

Il guaio è che a doverlo varare sarà il nuovo ad, quello che prenderà il posto dell’uscente Federico Ghizzoni, ma che dovrebbe arrivare non prima della fine di luglio. I tempi lunghi per la ricerca del manager spazientiscono il mercato, che è consapevole che più settimane passano e maggiore potrebbe essere il peso dell’aumento. Da qui, la discesa ai minimi storici, ormai aggiornati quasi di seduta in seduta.

 

 

 

Azioni Deutsche Bank al minimo storico

Un vecchio proverbio recita “mal comune, mezzo gaudio”. E per Unicredit potrebbe essere forse l’unica soddisfazione quella di sapere che anche il colosso tedesco Deutsche Bank naviga in cattive acque e nelle scorse ore il titolo è sprofondato al minimo storico di 12,84 euro, segnalando una capitalizzazione di appena 17,7 miliardi di euro. Tanto vale in borsa il più grande istituto della Germania, che quest’anno ha già perso oltre il 40%.

E pensare che il livello più basso di sempre in borsa Deutsche Bank lo abbia toccato ieri, mentre a New York parlava il capo del suo consiglio di sorveglianza, Paul Achleitner, che tuonava contro il rischio Brexit, considerato “un disastro per la Gran Bretagna”.

Da manipolazione tassi e cambi a caso derivati

Il crollo della banca tedesca è legato alle magagne giudiziarie degli ultimi anni. Dal 2008 ad oggi, ha dovuto pagare multe per dieci miliardi di dollari, di cui quella maxi da 6,8 miliardi dello scorso anno. Accusata di manovrare dai tassi d’interesse ai cambi, alterando il mercato, l’istituto deve affrontare adesso anche una nuova indagine dell’authority finanziaria americana, relativa alla vendita di bond coperti dalla garanzia immobiliare, quando era ancora in corso la crisi finanziaria. Secondo i calcoli di Barclays, la causa potrebbe costare a Deutsche Bank altri 4,5 miliardi di dollari.

Nel febbraio scorso, entrò già nell’occhio del ciclone, quando si era diffuso il timore che non sarebbe stata in grado di onorare il pagamento delle cedole sui suoi co.co.bond, obbligazioni subordinate e convertibili in azioni dalla banca al verificarsi di determinati eventi.

Nel tentativo di arrestare tali dubbi, il colosso annunciò un piano di buy-back da 5,4 miliardi, che sembrava avere frenato la sfiducia.

Too big to fail, crisi banche grandi europee

Unicredit e Deutsche Bank sono il simbolo delle “too big to fail”, delle banche troppo grandi per fallire, ma anche troppo grandi per essere salvate. Quando nell’inverno passato si moltiplicarono i dubbi sulla solidità della tedesca, qualcuno insinuò che il governo della cancelliera Angela Merkel fosse tutt’altro che intenzionato a trovare soluzioni non di mercato per salvare l’istituto, che presta poco denaro all’economia reale della Germania, mentre è più che altro attivo sul mercato dei derivati, verso cui è esposto per una montagna da 75.000 miliardi, 20 volte il pil tedesco.

In realtà, né Unicredit, né Deutsche Bank potranno fallire, essendo espressione rispettivamente dell’economia italiana e di quella tedesca. La gravità della loro crisi, però, è la spia del pericolo incombente sull’intera Eurozona.